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Euridice

Ho iniziato a scrivere questo post tempo fa. Quasi un anno, o forse più.
Era dedicato ad una persona a me molto cara, che non l’ha mai letto. e pian piano, proprio in quel periodo, ho iniziato a perderla.
Ora, tutto si sta ripetendo.
Ancora un anno, forse, e perderò un’altra persona. In parte per colpa mia, in parte a causa delle sue decisioni. Questa persona non leggerà mai questo post, ma non importa. Terminerò questo post, perchè devo imparare a chiudere le mille parentesi che apro.
Forse questo post è per Giulia e Glauco. Per Giulia, perchè è vero: quando ti sembra di morire, non muori davvero. Per Glauco, perchè è vero: non sono mai contento.
 
 

Avete presente quella sensazione quando vi addormentate il pomeriggio, con la luce, e vi risvegliate la sera, quando è buio, e perdete completamente la cognizione del tempo? O quando avete un deja-vu, o fate un sogno troppo reale, che sembra continuare anche dopo la sveglia? O ancora quando sognate una canzone meravigliosa, e vi svegliate sentendola ancora in testa, senza però capire che canzone sia, e sapete che tra pochissimo sparirà e non potrete più risentirla, o saperne il titolo -se davvero esiste- ? E quella sensazione terribile quando vi addormentate, ma i vostri occhi rimangono aperti e continuate a vedere ciò che vi circonda, ma siete completamente paralizzati?
In tutti questi momenti le nostre certezze vacillano, ci ritroviamo spaesati, quello che ci circonda sembra instabile e falso. Quella che siamo abituati a chiamare realtà sembra scomparire in una strana nebbia.

Forse sono però questi i momenti in cui riusciamo a guardare con più “lucidità” ciò che ci circonda e tutto ciò in cui siamo quotidianamente immersi.

Eppure, se dovessimo definire la realtà, non sapremmo come fare. Cos’è la realtà? Un insieme di dati definiti certi su basi soggettive, un modo inventato per comprendere qualcosa di non inventato. Un metodo fallace per definire qualcosa di incontrovertibile, praticamente un errore sul nascere. Come facciamo ad essere certi che i nostri metodi per misurare e giudicare un mondo a noi incomprensibile possano essere esatti e giusti? E qui si tornerebbe al solito discorso sulla relatività del tutto, e le mille solite idee, trite e ritrite, su cui persone molto più degne di me hanno ragionato.

Vedere oltre la realtà, dicevo. Meglio, vedere oltre le convenzioni che chiamiamo realtà.

Avete mai pensato che nulla di ciò che ci circonda è in realtà così come lo percepiamo, che il nostro modo di vivere è solo una delle infinite possibilità, che i nostri sorrisi possono anche essere l’arma più aggressiva? Che tutte le nostre certezze si basano solo su piccoli equilibri, compromessi e approssimazioni? Certo che lo avete pensato.
E il risultato, ogni volta che ci pensate, è quella sensazione di smarrimento e malinconia, forse anche un po’ di impotenza.
Per esempio, il tempo. Per noi è una verità assoluta. C’è, funziona così, e regola tutto. Eppure facciamo di tutto per aggirarlo, perchè ci terrorizza. Noi non lo vogliamo, il tempo. Ma ne siamo schiavi.
Il tempo non esiste. O meglio, esiste, ma non è qualcosa di definito, dipende da come lo si guarda, da come lo si interpreta. In ogni cultura il tempo funziona in un modo diverso, viene diviso in modi diversi se non addirittura ignorato. I nativi americani non avevano il nostro tempo. Per loro ogni momento esisteva davvero,  tutto attraversava varie fasi, ed ognuna di queste aveva una sua ragione d’essere, ogni momento aveva un suo valore. Un fiore nasceva, cresceva e moriva passando per tantissime piccole fasi, tutte nobili l’una quanto l’altra. Il loro tempo non era un filo che scorre. Il loro tempo erano tante immagini, e nulla impediva al passato e al presente di convivere. Tutto poteva essere contemporaneamente. E se ci pensiamo, è un po’ come il cinema, tante piccole immagini, che noi vediamo e interpretiamo come un continuum. Ed è anche come la nostra vista. Ecco, noi vediamo in un modo, ma interpretiamo il tempo in un altro. C’è qualcosa di più confuso?

Confusione. Ipnosi. Rivivere momenti apparentemente dimenticati attraverso l’ipnosi. Dicono che il cervello immagazzini ogni informazione. Dico ogni informazione. Tutto quello che viviamo, ogni singola esperienza, ogni dato. Ma per poter funzionare deve nasconderci quasi tutto. Ricordare tutto, impossibile. Forse pericoloso. Come uscire da una caverna, al buio, ed essere accecati dalla luce, tutta, troppa in troppo poco tempo. Uhm. Ripetere una parola, ripetere una parola finché perde senso. Proprio poco tempo fa sentivo parlare di questa cosa, dicevano che succede perchè ripetendola avviene un cortocircuito, e facendo saltare tutti i collegamenti a questa parola nel nostro cervello non riusciamo più a darle un significato.
Essere sovrappensiero. E dimenticare tutto quello che si sta facendo. Pensare ad altro.

Nulla esiste. Potremmo anche discutere della parola “esiste”, ma a cosa serve? Non so nemmeno perchè ora sto pensando a questo. Forse perchè stavo pensando ad una cosa che mi rende un po’ triste. Non che ce ne sia motivo. Pensavo ai cervi nei boschi, a come vedono i boschi. Voglio dire, io amo vedere le piante. Il loro verde, le sfumature delle foglie tenere sulle punte dei rami, il rosso dei frutti,  le loro forme, mi fanno stare davvero bene. Penso sia normale per tutti. La natura ci rilassa. E pensavo ai cervi, che praticamente vedono solo il blu e il verde. Per loro non esistono gli altri colori. Noi senza quei colori non riusciremmo nemmeno a esprimerci, riempiamo pagine e conversazioni di parole che riguardano i colori, ci scriviamo tesi, studiamo il loro effetto su di noi e impazziamo per riuscire a stampare il colore giusto. E loro, semplicemente, non sanno che esiste. Il rosso per i cervi non esiste. Ovvio poi, chissà quanti colori noi ci perdiamo. Ecco, i colori sono l’ennesimo compromesso che ci rende felici.

Di cosa sto parlando? Non ne ho idea. Sono solo pensieri. Arrivano e scompaiono prima ancora di essere compresi. Prima di addormentarmi succede sempre così. Vedo mille cose, rivivo momenti e me ne vengono alla mente altri mai vissuti. Soprattutto sento suoni. Sento suoni assurdi e fortissimi, chiarissimi. Eppure resta tutto nella mia testa per una sola frazione di secondo. Poi tutto scompare e lascia spazio ad altre idee. E’ come se prima di abbandonarmi al vuoto attraversassi un fiume in piena di idee, pensieri, rumori. Ne vengo sommersa finché questi non diventano troppi e troppo densi, e finalmente il sonno mi inghiottisce.
Il sonno. Amo il sonno. Forse perchè è il mio modo di scappare da ciò che mi spaventa. Il sonno è la mia migliore arma. Ed è pericolosissima, perchè nulla è più forte del sonno. Spesso da piccola sognavo di trovarmi in situazioni orribili, e la mia risposta, anche in sogno, era quella di mettermi a dormire. Ed era bellissimo, perchè mi sentivo davvero forte. Nessuno poteva fare più nulla, se io dormivo, nessuno poteva fermarmi, e io non potevo stare meglio, al caldo, in un mondo dove entrava solo quello che volevo. Il torpore mi rende invincibile, tutto quello che è all’infuori di me perde senso, tutto torna ad essere relativo e io me ne rendo conto. Mi illumino, con gli occhi chiusi, e capisco che è tutto falso, che è tutto forse, che è tutto piccolo e insignificante.
Il sonno è il mio più grande amico, il mio rifugio sicuro, e forse la mia abitudine peggiore. Spesso ho paura che pian piano mi stia inghiottendo. Dormo troppo, nei luoghi più disparati, nei momenti meno opportuni. E non riesco a controllarmi. Eppure è piacevole. In fondo, non mi può succedere nulla di male no? Se anche scomparissi nel sonno, nessuno potrebbe farci nulla. Io, di certo, non mi opporrei. Non ne avrei la forza, e nemmeno la voglia.

L’ho conosciuto da poco, e ancora non ho capito che genere di persona possa essere. I suoi modi, la sua voce, il suo interesse per la moda: tutto mi porterebbe a pensare che sia gay. Eppure quegli stessi modi femminei, quel modo di gesticolare, quelle mani leggere, mi attraggono. Non è una femminilità esasperata, è qualcosa di diverso. Una delicatezza insita in ogni gesto. Potrei rimanere ore a guardarlo mentre parla, mi ipnotizza, come quando resto imbambolata a guardare le donne che si truccano. Nel loro caso forse è perchè non ho mai saputo truccarmi degnamente. Nel suo caso, invece, forse è perchè in fondo non mi sono mai sentita una donna, non mi sono mai sentita veramente “qualcosa” se non me stessa. Vedo in lui qualcosa che ho sempre voluto essere. Non so cosa sia ciò che mi attrae così tanto, ma è come assistere ad una lenta cerimonia. Bisogna stare attenti e cogliere ogni dettaglio, è importante.
L’ho conosciuto da poco, dicevo. Davvero poco. Questa mattina. Eppure mi attrae, e sento di interessargli. Non so nemmeno come si chiami, non mi interessa. Quello che mi interessa è dentro di lui, è dietro di lui. E’ nelle sue mani, dentro le ossa. Scorre tra i suoi nervi e i suoi sorrisi. Ci siamo incontrati per caso in un negozio e abbiamo iniziato a girovagare per la città insieme, con naturalezza. Come se ci conoscessimo già. E’ un uomo sulla trentina, se non più grande. Biondo, barba leggera e capelli cortissimi. Immagino li tagli così per non doversi rendere conto di aver già iniziato a perderli. Per non rendersi conto dei suoi anni. Incravattato, comicia bianca, giacca blu. Un perfetto uomo d’affari, si direbbe. La differenza d’età non mi sconvolge, quello che mi sorprende è che io, Hotaru, per la prima volta mi ritrovo ad essere attratta da un occidentale, da uno di quei manager in carriera bianchi che ho sempre disprezzato. Certo è che ultimamente sono strana, sto cambiando molte abitudini e spesso mi ritrovo a fare cose che un tempo non avrei mai pensato di fare. Non so, forse ho bisogno di cambiare. Mi sento confusa da un po’ di tempo a questa parte, e sento di dover fare qualcosa. Un viaggio forse, ma anche conoscere qualcuno di diverso.
Il rumore delle scale mobili sembra essere l’unica colonna sonora di questo incontro. Cielo. Colonna sonora? Incontro? Perchè passo il tempo a romanzare ogni momento della mia vita?

Stiamo curiosando in un negozio di accessori, tra collane e orecchini, e lui mi mette addosso questa sciarpa in lana, grandissima, perfetta per gli inverni. Da un lato è nera e dall’altro è color senape, attraversata da un motivo a lisca di pesce. Amo la delicatezza con la quale la avvolge attorno al mio collo, e mi guardo allo specchio. Sembro così goffa, il mio caschetto nero mi fa sembrare un maschiaccio e i miei lineamenti morbidi mi danno un’aria infantile. Nessuno crede mai io abbia davvero 22 anni. Eppure mi piaccio. Quella ragazzina bassa e testarda sembrava piacere a molti. Mi torna in mente il mio ex, adorava questo mio aspetto, ma ho sempre sospettato fosse perchè gli ricordavo qualcun’altro. Era uno strano legame, il nostro. Ci amavamo, forse. O forse era solo una specie di legame fraterno molto forte, ci completavamo, eravamo sempre quello che serviva all’altro, la spalla su cui piangere e la persona più dolce con cui ridere. Sembrava sempre triste, eppure riusciva a farmi ridere come pochi altri. Stavo molto bene con lui, e mi accorgo sempre più quanto mi manchi. Riescono addirittura a mancarmi i suoi imbarazzanti slip colorati e le ore passate sui videogiochi ascoltando le ultime uscite beach-pop, come ragazzini troppo cresciuti, sperando sempre di sfrecciare un giorno in auto sulle spiagge della California ascoltando i Metronomy. “Un giorno”, forse proprio per questo non è funzionata. Eravamo sempre proiettati nel futuro, facevamo mille progetti e poi rimanevamo nella nostra città, legati alle solite persone che odiavamo e ai nostri lavoretti di merda. Eravamo pigri, e non volevamo affrontare la realtà, impauriti dai mille ostacoli che immaginavamo si sarebbero frapposti fra noi e i nostri sogni. E poi, parlare di sogni, sembrava troppo infantile per poterci credere davvero.
Basta così, è passato, e rimarrà tale. Meglio pensare al presente, a cosa sto vivendo ora, a cosa voglio vivere ora. E’ tutto troppo confuso, ed è il caso di fare un po’ di chiarezza. Devo svegliarmi e cercare di gestire un po’ il mio futuro. Inizierò smettendo di perdermi nel vuoto mentre mi guardo allo specchio.
Lo specchio appoggiato alla parete in questo negozio poco illuminato riflette me e l’uomo che mi sta accompagnando in questa strana giornata. Mi chiedo se sia reale, ogni minuto che passa mi rendo sempre più conto di quanto tutto questo sia assurdo. Ma è qui con me, e ciò mi fa sentire al sicuro. Chiunque lui sia, da qualunque posto venga, sono stata fortunata ad averlo incontrato. Mi dirigo alla cassa, compro la sciarpa ed esco in silenzio. Il vento freddo di questo inverno soffia sulle mie guance. Decido di coprirmi e mettere il mio nuovo, soffice acquisto.


Non capisco come possano certe persone considerare stupida la cura del proprio abbigliamento. Mentre mi copro non riesco a fare a meno di sorridere felice sentendo gli strati caldi e colorati di stoffe coprirmi. Sono vestita come il mondo che mi circonda, come le piante e le strade e le foglie secche che le ricoprono. Felponi e scarponi neri, maglioni marroni, sciarpe senape, cardigan bordeaux. Qualcuno considera questi colori dei colori tristi. Per me sono solo colori, felici quanto ogni altro colore. Sotto tutti questi strati mi sento a casa, potrei affrontare ogni vento e stare bene. E’ come se mi portassi dietro un luogo intimo, tutto mio, fatto di ricordi e sensazioni. E ogni piega significa qualcosa. Dietro una cucitura può esserci un’intera tradizione, e dietro una camicia stirata male può esserci una madre arrabbiata col marito mentre una televisione ignorata urla troppo forte.
Ci allontaniamo dal negozio, e camminiamo lentamente. Il cielo è grigio.

Camminiamo per  una decina di minuti, passeggiando tra i canali. Siamo ormai lontani dal centro, alla strada iniziano ad affiancarsi dei campi verdi, erba tenera che riposa in questa giornata umida, forse qualche campo coltivato a rotazione lasciato in pace per un po’. I canali scorrono placidi, passando sotto lo stradone, che in alcuni punti diventa un romantico ponte, con delle vecchie ringhiere in ferro battuto.
“Ci stanno seguendo”

“Cosa sai della Yakuza?”
E’ davvero fantastico il modo in cui, nella mia vita, passo da momenti di completa tranquillità a momenti di puro dramma. Sorrido beata quando il mondo attorno a me impazzisce, mia madre inizia a urlare, le amiche in lacrime mi chiamano, gli amici mi rivelano cose terribili che avevo più volte cercato di ignorare. Il telefono squilla e una voce tremante mi fa sapere che anche lei, lei che ora sembrava così forte, è scomparsa.
“Ci stanno seguendo da qualche ora. Ti seguono, ti seguono da tempo. E’ per via di tuo padre. Lo avevi capito forse”. No, io non ho capito nulla. Non avevo capito nulla prima, non ho capito nulla ora. Non ho mai capito molto di mio padre, ma ora sta diventando tutto davvero assurdo. Cosa sta succedendo? E’ tutto falso, sta scherzando. Non fa ridere. Cosa sta dicendo? Non sta scherzando.
“Sono qui per proteggerti”
Sta scherzando.
Una macchina sgomma, poi frena, le portiere si aprono. Non posso non aver notato una macchina del genere fino ad ora, non può averci seguito. Non ha senso, eravamo in un negozio, ho preso una sciarpa, no, cos’è tutto questo?
Due uomini scendono dalla macchina. Asiatici, blazer, nocche tatuate, pistole?
Sono allibita. Ok, forse sono terrorizzata. Non so cosa stia succedendo ma ho paura e di certo no sta succedendo nulla di buono. Nessuno sta scherzando.
L’uomo occidentale mi si mette davanti, mi nasconde, tira fuori una pistola. I due uomini urlano qualcosa, puntano le pistole su di noi. Dobbiamo scappare, sparagli, dobbiamo scappare. L’uomo occidentale mi spinge dietro di lui, mi dice di nascondermi dietro un piccolo muretto a pochi metri da noi. Io corro. Non sto più nemmeno pensando, corro, non mi giro e non capisco cosa succede. Inizia a nevicare. No, forse è già iniziato da un po’. Come faccio ad accorgermi della neve in una situazione del genere? Lui urla, loro urlano, sento uno sparo, altri due spari, dietro il muretto mi volto e guardo la scena. Un giapponese a terra. L’altro uomo sceso dalla macchina e l’occidentale si puntano ancora la pistola contro. L’occidentale mi urla qualcosa, qualcosa che non capisco. Si accascia. Anche il giapponese si accascia. Si sono uccisi. Io sono dietro il muretto. Nevica, e loro si sono uccisi. Tre morti su una strada. Un’auto. Nient’altro. Silenzio.

Forse non me ne ero accorta. O forse non volevo semplicemente dirlo. Forse. Basta coi forse. Ci sono troppi forse nelle nostre vite, come se dovessimo sempre cercare di dare una spiegazione a tutto, anche quando non sappiamo nulla. Ma non serve, non è scritto da nessuna parte, non serve sempre una spiegazione. certe cose succedono e basta. Altre le senti e sai che ci sono. Altre volte non le senti, ma ci sono. Dovremmo imparare a vivere senza cercare una spiegazione a tutto, saremmo molto più sereni. E’ tutto bianco, quando non hai dubbi nè certezze, quando non sai nemmeno di esserci, ma stai bene, e questo basta.

Mi sposto, mi avvicino all’occidentale. Pochi passi, fa male. Mi hanno sparato, e non me ne ero accorta. Assurdo. Bene. Ancora qualche passo verso di lui.
Mi hanno sparato. Lo sto ripetendo perchè ripetere le cose mi aiuta a capirle. Piano piano, con tranquillità, si possono capire le cose, almeno un pochino.
Rido un po’ tra me e me, è come dicevo prima, nella mia vita accadono le cose più assurde, e io ancora non me ne faccio una ragione, soprattutto ultimamente, in questo periodo è tutto molto confuso. Io sono molto confusa. E’ ora di cambiare qualcosa. Partirò, ecco. Devo andare da qualche parte.
Potrei tornare in Giappone. Da quanto non torno in Giappone? Saranno secoli. Non che ne abbia davvero voglia, ho sempre odiato quel posto. Ma ho anche tanti bei ricordi. Forse mi farebbe bene. Tornare a casa. Rivedere casa.

Sono andata in un ristorante, avevo così tanta fame, e avevo bisogno di soccorso, almeno credo. Sono sempre molto stanca ultimamente, oggi in particolare. Credo di essere ancora un po’ rintronata. Forse è per tutto quello che è successo, forse per lo sparo. Mi sono seduta qui, è un MacDonalds, ci sono queste sedie molto carine, tutte scomode. Sono su uno sgabello, ed è pieno di gente. Sono seduta qui da ore, ma non ho ancora mangiato nulla. Non ho ordinato nulla. Forse, tra un po’. Dove sono? Sono in Giappone? Sono in aeroporto, nel MacDonalds dell’aeroporto. Mi sono ripresa, non ho nulla, sono solo un po’ stanca, ma ce la posso fare, ora partirò, è ciò di cui ho bisogno in fondo. Devo solo organizzarmi, riordinare le mie priorità, fare qualcosa per me. Sì, devo dedicarmi un po’ di tempo, ritagliarmi dei piccoli spazi, rivedere casa. Riprendermi i miei tempi. Torno in Giappone.

Ogni giorno, andando verso casa dopo scuola, attraversavo questi grandi viali alberati. Alberi brutti, ma molto imponenti. I classici alberi da foresta temperata, anonimi, europei.
Li attraverso ostinata nei miei felponi neri, la mia sciarpa senape al collo, parto, corro per questo viale innevato. Sto benissimo. Forse volevo dire “è bellissimo”. Non so.
La musica cresce, e penso di conoscere questa canzone, anche se l’ho sentita solo una volta. Me l’ha fatta sentire una cara amica. O forse ero io ad averla trovata, non ricordo.
Vedere questi viali alberati a volo d’uccello, mentre nevica e i lampioni gialli sono accesi nonostante sia ancora giorno. Nessuna macchina attraversa il viale oggi, è tutto per me.
Neve ovunque, anche sul campo di grano. Un campo di grano, e in mezzo un vialetto che lo percorre, forse sarebbe meglio dire una stradina sterrata, che si sviluppa in una spirale e porta chissà dove. Non vedo la fine del percorso, e per ora non mi interessa. Con calma ci arriverò.
C’è bisogno di respirare aria fresca, anche in questo inverno.

Il freddo nelle ossa scompare, il torpore del sonno è più forte.

quando, qualcosa che inizia, finisce?

Stitches

Perchè odio il corpo?
Perchè è sporco. Il corpo è carne, è cellule che si riproducono e muoiono, è fasci di muscoli che si tendono e si sfilacciano una volta cotti, è viscido, è ruvido, è in movimento, è destinato alla putrefazione ed ogni giorno si decompone, è cannibalismo, è un continuo rigenerarsi, è un essere bestiale che urla e stride, è protesi in metallo e plastica, è carne cattiva dall’aspetto angelico, è merda, è sebo, è unto, è grasso che cola, grasso che si solidifica, è pareti intestinali rugose, è acido gastrico, è spruzzi chimici che diventano emozioni, è muscoli rossi che pompano e si contraggono, è sperma, è sesso, è avidità, è rabbia, è affetto, è un insieme di significati che crescono sotto pelle e in ogni azione o abbraccio, è pelle strappata, desquamata, secca, grassa, pulita, irritata, è cheratina, è peli, è gusci di formiche così sottili da diventare morbidi, è bulbi piliferi, è sopracciglia e occhi e sguardi e catarro e morte.
Il corpo è la tomba della purezza.

Il corpo sono due possibilità e un’infinita gamma di scelte che non si possono fare.
Io sono in una delle due possibilità, uscita male, e mi colloco in una scelta che non so.
Il mio corpo non serve, se non a se stesso. Non serve alla mia mente, non serve alla mente degli altri e non serve al corpo degli altri. E’ un meccanismo solo e destinato allo sporco.
Preservare il corpo è inutile in questo caso. L’egoismo è accettabile. Voglio quindi fare del mio corpo l’espressione della mia indecisione e della mia poca stima in me stesso. Voglio bruciare l’orgoglio e la credibilità.

Lunghe fila di punti di sutura sotto i miei seni, pelle di plastica, i piedi devono essere rotti per la loro ignobiltà. Tra le gambe la decisione di non poter decidere e la dimostrazione dell’immaturità, o la poesia di un manichino.

Ma non lo farò perchè principalmente il mio cervello è codardo.

L’odore di merda, della tua stessa merda, fa cagare.
mentre il vomito degli altri ribolle di amore.

mirror: di parenti, musica e identità. 1.2

le lacrime che sono appena scese mi hanno portato a scrivere ancora,

voglio capire cos’è questa sensazione, questo disgusto e questa tristezza che riesco a provare.

Stairway to heaven. I Led Zeppelin, un gruppo che rispetto ma non sono mai riuscito ad apprezzare. Ho sempre sentito la loro musica, non solo la loro, ma tutto il rock anni 70-80, i gruppi con quei pantaloni aderenti, capelli ricci, come qualcosa di fastidioso. I testi misteriosi, ammiccanti secondo le leggende al satanismo, la droga, il sesso, le chitarre. La melodia triste, la voce di un uomo che passa tra zaffate di chitarre acustiche o elettriche, le giacche in jeans. Mi fa paura. Mi vengono in mente i rolling stones, i kiss, o gruppi sconosciuti, perchè erano così tanti. I gruppi fantomatici dei film che però rappresentavano quel giro di soldi, droga e musica. La corruzione e il talento, la passione e la stupidità, l’ignoranza.
E mi viene in mente mio cugino, il pensare che sia nato 10 anni prima di me lo rende così diverso, così lontano. Le sue esperienze che non riesco ad accettare, la sua diversità che mi urta, quella che vedo come un’inferiorità calata in un assolo di chitarra e una birra, i suoi videogiochi, forse la sua solitudine. I videogiochi, i primi guerre stellari usciti, gli sparatutto dove venivi buttato in una dimensione fredda e ostile, le riviste di videogiochi, quella mania del nuovo che se rivista ora fa solo ridere, quelle impaginazioni antiestetiche, quella cultura underground che dagli anni 80 diventava sempre più viva nei 90, il game boy giallo e super mario, il suono freddo di quella macchinetta e le ore che lui ci passava con le cartucce passategli dagli amici.
Vedo il grigiore di quegli anni, della sua adolescenza e della mia infanzia. I canali regionali che trasmettevano vecchi cartoni che snobbavo per la scarsa qualità mentre lui ci si fiondava dentro.
E risentendo questa musica sento una malinconia continua, una depressione senza motivo, degli anni buttati tra inquinamento e consumismo, tra mode stupide e questi nuovi generi musicali. Eppure riesco ad apprezzare quelle mode frivole, nate poco dopo. Apprezzo la droga che girava nei party dei club kids anni 80 mentre disprezzo quella che girava nei backstage dei concerti il decennio prima. Sento questa musica cattiva, fredda, brutta come uno sputo su uno specchio.
Ma questo odio che provo per lei, per quest’epoca, mi affascina. Forse anche perchè vedo in lei quella virilità che mi fa paura, che rifuggo di continuo.

(…)

(mi viene poi da pensare a quanto nella vita non ci siano decisioni completamente giuste o sbagliate, a quanto più persone si possono essere rapportate ad una stessa situazione in modi diversi, chi con esiti positivi che con esiti negativi. e cosa mi impedisce quindi di tentare? il non poter più tornare indietro certo fa paura, ma tra lo stare male ora e lo stare male in futuro, esistono differenze?)

19/11/2009

listening to All is full of Love (live) by Bjork

7.45 di mattina.
L’autobus è pieno
Gente che va a scuola, gente che va a lavoro.
Tutto è ancora calmo e silenzioso,  tutti vogliono ancora riposare. I vetri lentamente iniziano ad appannarsi e qualche passeggero già sonnecchia.
Una ragazza (o forse dovrei dire donna) sulla trentina siede poco avanti a me, nella fila di fianco. E’ vestita bene, di nero e grigio. Ha un volto ancora giovane e un piercing minuscolo sul naso.
La osservo mentre gli archi di All is full of love si mescolano nell’aria.
Uno strano ombrello, in quello che sembra essere ferro battuto, con una stoffa argentata che si chiude in un vaporoso fiore, penzola di fianco a lei.
Ogni suo oggetto o atteggiamento la rende più bella di quanto realmente non sia.
I suoi capelli a caschetto neri, il viso piccolo e appuntito, mi ricordano mia cugina. Mi ricorda qualcosa che vedevo da piccolo, un’idea che mi ero fatto dell'”essere grandi”, una vita che vedevo nei telefilm che guardavano gli adolescenti del tempo, tra Friends e Daria.
Prende un piccolo specchietto grigio e inizia a mettersi un rossetto scuro -che sembra essere di muji, in una scatola trasparente- con dei piccoli colpetti sulle labbra, frettolosamente.
Mi da l’idea di una che appena arrivata a Milano correrà in ufficio, tra fax e e-mail.
I piccoli carillon e cristalli della canzone accompagnano i suoi gesti, e io continuo a guardarla sorridendo.
Forse perchè vorrei essere lei, forse perchè osservarla mi rende sereno.
Prende la sua borsa e ne tira fuori un basco in lana grigia, che immagino essere morbidissimo. Poi un Ipod nero e si mette ad ascoltare la radio, mentre io sento e mi ripeto “all is full of love”.
Tutto è così bello e calmo, e nessuno sembra accorgersene.
Forse dovrebbero solo imparare a guardare i colori e sorridere.
Forse è che spero sempre, in tutto.
E nonostante molte cose siano irrealizzabili, esse mi rendono felice.

it’s all around you

Impulso

dedicato a chi non disegna per paura di non riuscire a disegnare ciò che immagina

sento un’intensa voglia di creare.
voglia di disegnare, fotografare, costruire. fare qualcosa di bello, serio, elegante. voglio riuscire a far uscire dalle mie mani una forma nera e lucida, un feticcio di latex ispirato a leigh bowery, una polaroid in bianco e nero, fasci di luce, tacchi e perversioni per strani uomini

ho questa voglia di fare, eppure non riesco nemmeno ad alzare il culo e mettere via un pò di roba, prendere la macchina fotografica e scattare, o prendere un foglio e fare delle righe
e poi, anche se mi mettessi a “fare”, riuscirei mai a rendere concreta la sensazione che provo?

e mentre rifletto sul mio non riuscire a fare perdo la voglia di fare
dimentico la sensazione e l’immagine
vorrei essere spettatore di ciò che vorrei
voglio che qualcuno immagini le mie stesse cose e me le faccia rivedere

voglio come sempre delegare ad altri ciò che dovrei perlomeno tentare di fare

Violet, anche questo post all’inizio voleva essere un’altra cosa. ma pian piano ha perso la sua essenza.
ho dimenticato ciò che volevo dire
le parole hanno perso la loro importanza
ma l’idea è sempre quella. finchè puoi permetterti di non delegare non farlo.
usa la tua creatività.

creare un’immagine, creare la mia immagine, soddisfare la mia immagine, soddisfare l’immaginazione di altri.

mana

ascoltavo un live di fever ray, suonava here before. e mi è venuto in mente di quando ero dall’altra parte del mondo, e nemmeno sapevo di esserlo.

wilder than moonlight,
smiling like sunshine

surrounded by forests and strangers
light unfolding through leaves
water and mud, natural playgrounds, myths and families

such a strong woman, such a hard life
moon

qui c’è di tutto. dai sogni più strani che abbia mai fatto alle situazioni più paurose che abbia vissuto.
l’essere circondato dallo stress e dalla paura, da situazioni assurde che hanno messo a dura prova le diverse generazioni di una famiglia.
ricordo solo pochi fotogrammi, sensazioni, luoghi, tutto sconnesso e lontano, e non posso più individuare the boundaries tra sogno e realtà.

ricordo l’odore di sandalo, i cartoni in inglese, la mia passione per vishnu, i templi, la foresta dietro casa che scendeva per la collina fino a chissà dove, l’asilo, la luce che inondava una grande sala piena di poster di tartarughe e sea landscapes. ricordo i batik e il grande negozio dove li vendevano, la strada per andare li, i centri commerciali immensi e pieni di giocattoli. lo slime con cui giocavo mentre mia madre parlava con una persona che più di dieci anni dopo avrei conosciuto e ammirato, un pullmino su cui abbiamo attraversato seasides e comuni, case dove leggevo libri tristi per bambini immerso in un ricordo viola. zanzariere e sconosciuti, mercatini dove immaginette di kali mi terrorizzavano, fiori di loto aperti in continuazione, ninfee e giardini botanici. litigi e piccoli traumi, il mio non essere me, il non conoscere nessuno. le nottate svegli, intere famiglie in una sola casa, Indra.
un nome troppo forte il tuo, forse. hai scatenato la tempesta, e poco prima ero con te. mame tame matakkaranne oea, loved you. 

mi torna in mente il canale di scolo dove giocavo ogni volta che pioveva, e l’argilla con cui costruivo piccoli vasi venuti male. il giardino con i cobra e le canne di bambù, i miei pennarelli e una coetanea, o forse una domestica. la vergogna e i vicini.

gli spettacoli e i carboni, il pera-hera, il fuoco e una casa bianchissima. storie di bambini che uccidevano i genitori per dare prova di coraggio, la sera e i templi su montagnette in città. il fiore che ispirò i dagoba e il candore dei fiori del matrimonio dei miei. il loro profumo, Chandra.

Il monsone all’arrivo dell’aereo, la casa e il fango, le pubblicità con i diavoli e i materassi. i cuscini. gli aerei e la notte. quella notte che era ovunque, in ogni cosa, ogni ricordo, ogni disegno.

i blocchi di zucchero trasparente, la sala, la salma. le storie di fantasmi e gli esorcismi, gli sguardi e le uova.

le lumache e i muri, i ricchi e i loro pavoni, le caramelle e mia nonna, e un pullman su cui ogni volta si rischiava la vita. una casa nuova e isolata, gigantesca, dove assistevamo al tramonto sul balcone mentre in casa i vasi di mia zia prendevano polvere.

guardavo mille camere attraverso uno smeraldo 

sento il suono della pioggia e ricordo la luce che filtrava tra le foglie.
non ricordo mio padre che era lontano, ma ricordo mia madre e la sua sofferenza, che al tempo non potevo capire.

ricordo la sua camicia a righe  i suoi capelli lunghi, i capelli che adoravo e con cui giocherellavo sempre

quei capelli non ci sono più. io non ci sono più. e in parte anche tu, Luna.
il tuo coraggio e la tua forza però ci sono sempre, anche quando non li comprendo. lo sento.
troppo diversi per comprendere le nostre menti, troppo vicini per non voler sempre tentare.
forse eri tu la luna che ogni sera guardavo, la luna che mi seguiva ovunque 

e che mi segue ancora

mentre apro la serratura

continuo, nolente, a celebrare l’inverno

non mi sono mai opposto così tanto alla natura, non ho mai sentito così nemica la normalità.

 

eppure le note scorrono nelle mie orecchie, e mi promettono cose importanti. forse è solo l’arte dell’abbellire il nulla, ma spero sempre in un significato.

 

un regalo

ho bisogno di un regalo, ma forse nemmeno quello può bastarmi.

non ne posso più.
non sopporto più il mio corpo. non riesco a vederlo ogni giorno, passo le mattine a martoriarmi in bagno per cercare di nascondere in ogni modo la barba, per riuscire a tagliarla il più possibile, senza mai riuscire ad ottenere un risultato perfetto, ma garantendomi un bruciore che riesce solo ad aumentare il mio odio verso il mio involucro. ed è solo un difetto. passo il tempo a lavarmi, perché ormai sono diventato maniaco. mi sento sporco in ogni momento, non mi sento mai “a posto”. riesco a sentire costantemente l’odore della mia pelle, odore di sebo, o sudore, o semplicemente corpo, anche se non c’è nessun odore. vedo cose che altri non vedono, sento cose che non sentono. alcune perché in realtà nessuno le nota, altre perché sono solo nella mia testa. ma non sopporto l’odore che sento allo specchio. non sopporto l’odore che sento in camera mia, il mio. non sopporto me.
sono qui, alle 3.12 di notte a scrivere, perché non riesco ad addormentarmi. il mio corpo non riesce nemmeno a fare ciò.
l’unica cosa a cui riesco a pensare è al mio corpo. non capisco che rapporto ho con esso. lo voglio, in fondo? forse averne uno totalmente diverso non farebbe alcuna differenza. o forse si. forse non mi mancherebbe questo. o forse si. ma ogni giorno, vedere sulla faccia qualcosa che non mi appartiene, che ho ma che rispecchia tutto ciò che non sono. questo si che è essere poser. e poi quel naso che di profilo mi fa sembrare un condor. e anche li problemi. e i capelli, quella massa informe che mi da un aria da secchione e che non so come cambiare, e che devo lavare ogni giorno, se non più spesso. e poi il grasso. sono sovrappeso, così sovrappeso da non poter fare niente di ciò che voglio con il mio corpo. non posso vestirmi come vorrei, non posso comportarmi come vorrei, non posso nemmeno andare in piscina.
e poi quella voce. quell’orrenda voce, che non riesco a cambiare. anche se tento di imparare un altra voce, che non ho.
e la gente mi dice di non preoccuparmi, che non posso lamentarmi del mio corpo, che sono nato così. lo so benissimo. ma io non voglio questo corpo, mi DISGUSTA, preferirei non averne altri. non so cosa posso fare per essere ciò che desidero.

voglio solo sentirmi bene e a mio agio, voglio camminare tra la gente ed essere visto per come sono dentro. voglio un aspetto perlomeno SIMILE a ciò che sono, non completamente opposto.

voglio un corpo nuovo, o non voglio nessun corpo.
voglio un regalo.

 

-edit:

una persona che conosco da poco tempo, ma che in breve è riuscita a farmi davvero affezionare, mi ha consigliato di rendere pubblico questo post. per più motivi. perché ciò che io considero sporco per altri può essere bello, perché qualcuno può sentire queste parole molto vicine alla sua situazione, che sia una persona nella mia stessa condizione o in una più “decisa”, o che comunque, nonostante tutte le differenze, può sentire suo quel disperato bisogno di cambiare, forse prima di riuscirsi ad accettare o forse proprio perché non potrà mai accettare di vivere una situazione che non gli appartiene. perché in ogni situazione si può cambiare, perché la realtà non è un insieme di dati immutabili. perché abbiamo il controllo del 95% di ciò che ci succede, e perché in fondo siamo tutti molto simili. possiamo crederci superiori o inferiori, ma nessuno è salvo. ognuno soffre e ognuno si rallegra.
e poter aiutare qualcun altro è davvero fantastico.
e forse dire ad alta voce ciò che penso aiuterà sia me che altri-
e grazie, grazie a te miss dita rosa. e a tutti quelli che mettono lo smalto rosa anche se non è bello- 

ho sempre odiato le pagine finali

di un libro. Mi sembrano sempre così dense di significato. Odio le conclusioni, le ho sempre odiate. Sia quando le devo leggere sia quando le devo inventare, scrivere. Sia quando devo farle. Odio concludere. Odio discutere, odio ogni azione che possa avere un impatto decisivo. Ma ho costantemente bisogno di esse. Ne abbiamo tutti bisogno. Odio, ma amo.

Odio le ultime pagine di un libro. Ma le amo. Mi rendono sempre triste, anche se sono allegre e gioiose. Abbandonare i personaggi, certo, è ciò che rende queste pagine così terrificanti. Ma ciò che più mi inquieta è il dovermi separare dalla storia, dai concetti. Dalla sua atmosfera, che riesce così tanto ad influenzare la mia quotidianità.
E’ per questo che leggo le ultime pagine col fiato in gola, sempre più lentamente. Leggo e rileggo. E’ così stressante. Ho paura di finire, di tralasciare una parola, di non assorbire completamente ciò che mi viene detto. Ho paura di non ricordare delle cose importantissime. Sembra un po’ la mia continua paura di dimenticare gli eventi importanti. Cosa che faccio sempre. 

 

Questo libro è finito. O almeno, tra due pagine lo sarà. Non ho il coraggio di andare avanti. Sono ancora fermo in quella New York di dieci anni fa, in una storia vera, circondato da crack e drag queens. Una New York che sento disperatamente mia. Quella che da piccolo sognavo sempre, senza mai rendermene conto. 
Avevo veramente bisogno di questa storia. Ne avevo veramente tanto bisogno. Non è una conclusione. Nemmeno l’incipit. E’ “qualcosa di quella roba lì in mezzo“.

 

•••

Cerco di autoconvincermi che ho imparato la differenza tra giusto e sbagliato. Che esiste una cosa come il giusto e lo sbagliato. Ma invece ho imparato che queste cose -il “giusto” e lo “sbagliato”- sono cose che ci raccontiamo noi. Semplicemente per illuderci. Sono cose che non abbiamo mai provato. E mentre la maggior parte delle cose che ci raccontiamo può essere vera, non è davvero possibile sapere se le cose sono giuste finché non le abbiamo provate, sfottute, esibite. O sapere se sono sbagliate. O vere. O false. O qualcosa di quella roba lì in mezzo. E penso di saper distinguere un po’ meglio. E so anche che non smetterò mai di provare questo mondo. Non mi affiderò mai all’opinione comune. Be’ fare così sarebbe troppo comune.
E allora. Continuerò a ballare con i miei costumi. Giorno e notte. E non dormirò, per quanto possibile. E tracannerò a più non posso. E forse, piroettando tutta luccicante, giocando a un idiota nascondino nel bel mezzo di un campo all’aperto, forse, forse, qualunque cosa succederà sarà più grande e scorderò ciò che mi sembra grande adesso.

Non ho ancora un piano, ma quando l’avrò so che sarà di classe. Oh sì. Un piano di gran classe.

Josh Kilmer-Purcell,
In questi giorni sono fuori di me 

procrastination is making a cup of tea

esatto.

(via swiss miss)