Archivi categoria: melancholia

danimarca

“Quando Fridolin terminò il suo racconto il giorno spuntava grigio attraverso le tendine. Albertine non lo aveva interrotto neppure una volta con una domanda curiosa o impaziente.  Sentiva che egli non voleva, né poteva nasconderle nulla. Giaceva tranquilla con le braccia intrecciate dietro la nuca e tacque ancora a lungo, quando Fridolin aveva già finito da un pezzo.
Finalmente – era disteso al suo fianco – egli si chinò su di lei e fissando il suo volto immobile dai grandi occhi chiari nei quali adesso sembrava riflettersi il sorgere del giorno, chiese dubbioso e pieno di speranza: “Che dobbiamo fare, Albertine?”.
Lei sorrise, e dopo una breve esitazione rispose: “Ringraziare il destino, credo, di essere usciti incolumi da tutte le nostre avventure… da quelle vere e da quelle sognate”.
“Ne sei proprio sicura?” chiese Fridolin.
“Tanto sicura da presentire che la realtà di una notte, e anzi neppure quella di un’intera vita umana, non significano, al tempo stesso, anche la loro più profonda verità”.
“E nessun sogno” disse egli con un leggero sospiro “è interamente un sogno”.
Albertine prese la testa del marito fra le mani e l’attirò affettuosamente a sé. “Ma ora ci siamo svegliati…” disse “per lungo tempo”.
Per sempre, voleva aggiungere Fridolin, ma prima ancora che pronunciasse quelle parole, lei gli pose un dito sulle labbra e sussurrò come fra sé: “Non si può ipotecare il futuro”.
Rimasero così in silenzio, sonnecchiando anche, l’una vicino all’altro, senza sognare – finché come ogni mattina, alle sette bussarono alla porta, e, con gli abituali rumori della strada, con un vittorioso raggio di luce penetrato attraverso lo spiraglio della tenda e un chiaro riso di bambina nella stanza accanto, cominciò il nuovo giorno.”

Arthur Schnitzler, Doppio Sogno (Traumnovelle), 1925

inverno 2013, grandi stanze dorate, soffitti coperti di specchi, instabilità emotiva.

Euridice

Ho iniziato a scrivere questo post tempo fa. Quasi un anno, o forse più.
Era dedicato ad una persona a me molto cara, che non l’ha mai letto. e pian piano, proprio in quel periodo, ho iniziato a perderla.
Ora, tutto si sta ripetendo.
Ancora un anno, forse, e perderò un’altra persona. In parte per colpa mia, in parte a causa delle sue decisioni. Questa persona non leggerà mai questo post, ma non importa. Terminerò questo post, perchè devo imparare a chiudere le mille parentesi che apro.
Forse questo post è per Giulia e Glauco. Per Giulia, perchè è vero: quando ti sembra di morire, non muori davvero. Per Glauco, perchè è vero: non sono mai contento.
 
 

Avete presente quella sensazione quando vi addormentate il pomeriggio, con la luce, e vi risvegliate la sera, quando è buio, e perdete completamente la cognizione del tempo? O quando avete un deja-vu, o fate un sogno troppo reale, che sembra continuare anche dopo la sveglia? O ancora quando sognate una canzone meravigliosa, e vi svegliate sentendola ancora in testa, senza però capire che canzone sia, e sapete che tra pochissimo sparirà e non potrete più risentirla, o saperne il titolo -se davvero esiste- ? E quella sensazione terribile quando vi addormentate, ma i vostri occhi rimangono aperti e continuate a vedere ciò che vi circonda, ma siete completamente paralizzati?
In tutti questi momenti le nostre certezze vacillano, ci ritroviamo spaesati, quello che ci circonda sembra instabile e falso. Quella che siamo abituati a chiamare realtà sembra scomparire in una strana nebbia.

Forse sono però questi i momenti in cui riusciamo a guardare con più “lucidità” ciò che ci circonda e tutto ciò in cui siamo quotidianamente immersi.

Eppure, se dovessimo definire la realtà, non sapremmo come fare. Cos’è la realtà? Un insieme di dati definiti certi su basi soggettive, un modo inventato per comprendere qualcosa di non inventato. Un metodo fallace per definire qualcosa di incontrovertibile, praticamente un errore sul nascere. Come facciamo ad essere certi che i nostri metodi per misurare e giudicare un mondo a noi incomprensibile possano essere esatti e giusti? E qui si tornerebbe al solito discorso sulla relatività del tutto, e le mille solite idee, trite e ritrite, su cui persone molto più degne di me hanno ragionato.

Vedere oltre la realtà, dicevo. Meglio, vedere oltre le convenzioni che chiamiamo realtà.

Avete mai pensato che nulla di ciò che ci circonda è in realtà così come lo percepiamo, che il nostro modo di vivere è solo una delle infinite possibilità, che i nostri sorrisi possono anche essere l’arma più aggressiva? Che tutte le nostre certezze si basano solo su piccoli equilibri, compromessi e approssimazioni? Certo che lo avete pensato.
E il risultato, ogni volta che ci pensate, è quella sensazione di smarrimento e malinconia, forse anche un po’ di impotenza.
Per esempio, il tempo. Per noi è una verità assoluta. C’è, funziona così, e regola tutto. Eppure facciamo di tutto per aggirarlo, perchè ci terrorizza. Noi non lo vogliamo, il tempo. Ma ne siamo schiavi.
Il tempo non esiste. O meglio, esiste, ma non è qualcosa di definito, dipende da come lo si guarda, da come lo si interpreta. In ogni cultura il tempo funziona in un modo diverso, viene diviso in modi diversi se non addirittura ignorato. I nativi americani non avevano il nostro tempo. Per loro ogni momento esisteva davvero,  tutto attraversava varie fasi, ed ognuna di queste aveva una sua ragione d’essere, ogni momento aveva un suo valore. Un fiore nasceva, cresceva e moriva passando per tantissime piccole fasi, tutte nobili l’una quanto l’altra. Il loro tempo non era un filo che scorre. Il loro tempo erano tante immagini, e nulla impediva al passato e al presente di convivere. Tutto poteva essere contemporaneamente. E se ci pensiamo, è un po’ come il cinema, tante piccole immagini, che noi vediamo e interpretiamo come un continuum. Ed è anche come la nostra vista. Ecco, noi vediamo in un modo, ma interpretiamo il tempo in un altro. C’è qualcosa di più confuso?

Confusione. Ipnosi. Rivivere momenti apparentemente dimenticati attraverso l’ipnosi. Dicono che il cervello immagazzini ogni informazione. Dico ogni informazione. Tutto quello che viviamo, ogni singola esperienza, ogni dato. Ma per poter funzionare deve nasconderci quasi tutto. Ricordare tutto, impossibile. Forse pericoloso. Come uscire da una caverna, al buio, ed essere accecati dalla luce, tutta, troppa in troppo poco tempo. Uhm. Ripetere una parola, ripetere una parola finché perde senso. Proprio poco tempo fa sentivo parlare di questa cosa, dicevano che succede perchè ripetendola avviene un cortocircuito, e facendo saltare tutti i collegamenti a questa parola nel nostro cervello non riusciamo più a darle un significato.
Essere sovrappensiero. E dimenticare tutto quello che si sta facendo. Pensare ad altro.

Nulla esiste. Potremmo anche discutere della parola “esiste”, ma a cosa serve? Non so nemmeno perchè ora sto pensando a questo. Forse perchè stavo pensando ad una cosa che mi rende un po’ triste. Non che ce ne sia motivo. Pensavo ai cervi nei boschi, a come vedono i boschi. Voglio dire, io amo vedere le piante. Il loro verde, le sfumature delle foglie tenere sulle punte dei rami, il rosso dei frutti,  le loro forme, mi fanno stare davvero bene. Penso sia normale per tutti. La natura ci rilassa. E pensavo ai cervi, che praticamente vedono solo il blu e il verde. Per loro non esistono gli altri colori. Noi senza quei colori non riusciremmo nemmeno a esprimerci, riempiamo pagine e conversazioni di parole che riguardano i colori, ci scriviamo tesi, studiamo il loro effetto su di noi e impazziamo per riuscire a stampare il colore giusto. E loro, semplicemente, non sanno che esiste. Il rosso per i cervi non esiste. Ovvio poi, chissà quanti colori noi ci perdiamo. Ecco, i colori sono l’ennesimo compromesso che ci rende felici.

Di cosa sto parlando? Non ne ho idea. Sono solo pensieri. Arrivano e scompaiono prima ancora di essere compresi. Prima di addormentarmi succede sempre così. Vedo mille cose, rivivo momenti e me ne vengono alla mente altri mai vissuti. Soprattutto sento suoni. Sento suoni assurdi e fortissimi, chiarissimi. Eppure resta tutto nella mia testa per una sola frazione di secondo. Poi tutto scompare e lascia spazio ad altre idee. E’ come se prima di abbandonarmi al vuoto attraversassi un fiume in piena di idee, pensieri, rumori. Ne vengo sommersa finché questi non diventano troppi e troppo densi, e finalmente il sonno mi inghiottisce.
Il sonno. Amo il sonno. Forse perchè è il mio modo di scappare da ciò che mi spaventa. Il sonno è la mia migliore arma. Ed è pericolosissima, perchè nulla è più forte del sonno. Spesso da piccola sognavo di trovarmi in situazioni orribili, e la mia risposta, anche in sogno, era quella di mettermi a dormire. Ed era bellissimo, perchè mi sentivo davvero forte. Nessuno poteva fare più nulla, se io dormivo, nessuno poteva fermarmi, e io non potevo stare meglio, al caldo, in un mondo dove entrava solo quello che volevo. Il torpore mi rende invincibile, tutto quello che è all’infuori di me perde senso, tutto torna ad essere relativo e io me ne rendo conto. Mi illumino, con gli occhi chiusi, e capisco che è tutto falso, che è tutto forse, che è tutto piccolo e insignificante.
Il sonno è il mio più grande amico, il mio rifugio sicuro, e forse la mia abitudine peggiore. Spesso ho paura che pian piano mi stia inghiottendo. Dormo troppo, nei luoghi più disparati, nei momenti meno opportuni. E non riesco a controllarmi. Eppure è piacevole. In fondo, non mi può succedere nulla di male no? Se anche scomparissi nel sonno, nessuno potrebbe farci nulla. Io, di certo, non mi opporrei. Non ne avrei la forza, e nemmeno la voglia.

L’ho conosciuto da poco, e ancora non ho capito che genere di persona possa essere. I suoi modi, la sua voce, il suo interesse per la moda: tutto mi porterebbe a pensare che sia gay. Eppure quegli stessi modi femminei, quel modo di gesticolare, quelle mani leggere, mi attraggono. Non è una femminilità esasperata, è qualcosa di diverso. Una delicatezza insita in ogni gesto. Potrei rimanere ore a guardarlo mentre parla, mi ipnotizza, come quando resto imbambolata a guardare le donne che si truccano. Nel loro caso forse è perchè non ho mai saputo truccarmi degnamente. Nel suo caso, invece, forse è perchè in fondo non mi sono mai sentita una donna, non mi sono mai sentita veramente “qualcosa” se non me stessa. Vedo in lui qualcosa che ho sempre voluto essere. Non so cosa sia ciò che mi attrae così tanto, ma è come assistere ad una lenta cerimonia. Bisogna stare attenti e cogliere ogni dettaglio, è importante.
L’ho conosciuto da poco, dicevo. Davvero poco. Questa mattina. Eppure mi attrae, e sento di interessargli. Non so nemmeno come si chiami, non mi interessa. Quello che mi interessa è dentro di lui, è dietro di lui. E’ nelle sue mani, dentro le ossa. Scorre tra i suoi nervi e i suoi sorrisi. Ci siamo incontrati per caso in un negozio e abbiamo iniziato a girovagare per la città insieme, con naturalezza. Come se ci conoscessimo già. E’ un uomo sulla trentina, se non più grande. Biondo, barba leggera e capelli cortissimi. Immagino li tagli così per non doversi rendere conto di aver già iniziato a perderli. Per non rendersi conto dei suoi anni. Incravattato, comicia bianca, giacca blu. Un perfetto uomo d’affari, si direbbe. La differenza d’età non mi sconvolge, quello che mi sorprende è che io, Hotaru, per la prima volta mi ritrovo ad essere attratta da un occidentale, da uno di quei manager in carriera bianchi che ho sempre disprezzato. Certo è che ultimamente sono strana, sto cambiando molte abitudini e spesso mi ritrovo a fare cose che un tempo non avrei mai pensato di fare. Non so, forse ho bisogno di cambiare. Mi sento confusa da un po’ di tempo a questa parte, e sento di dover fare qualcosa. Un viaggio forse, ma anche conoscere qualcuno di diverso.
Il rumore delle scale mobili sembra essere l’unica colonna sonora di questo incontro. Cielo. Colonna sonora? Incontro? Perchè passo il tempo a romanzare ogni momento della mia vita?

Stiamo curiosando in un negozio di accessori, tra collane e orecchini, e lui mi mette addosso questa sciarpa in lana, grandissima, perfetta per gli inverni. Da un lato è nera e dall’altro è color senape, attraversata da un motivo a lisca di pesce. Amo la delicatezza con la quale la avvolge attorno al mio collo, e mi guardo allo specchio. Sembro così goffa, il mio caschetto nero mi fa sembrare un maschiaccio e i miei lineamenti morbidi mi danno un’aria infantile. Nessuno crede mai io abbia davvero 22 anni. Eppure mi piaccio. Quella ragazzina bassa e testarda sembrava piacere a molti. Mi torna in mente il mio ex, adorava questo mio aspetto, ma ho sempre sospettato fosse perchè gli ricordavo qualcun’altro. Era uno strano legame, il nostro. Ci amavamo, forse. O forse era solo una specie di legame fraterno molto forte, ci completavamo, eravamo sempre quello che serviva all’altro, la spalla su cui piangere e la persona più dolce con cui ridere. Sembrava sempre triste, eppure riusciva a farmi ridere come pochi altri. Stavo molto bene con lui, e mi accorgo sempre più quanto mi manchi. Riescono addirittura a mancarmi i suoi imbarazzanti slip colorati e le ore passate sui videogiochi ascoltando le ultime uscite beach-pop, come ragazzini troppo cresciuti, sperando sempre di sfrecciare un giorno in auto sulle spiagge della California ascoltando i Metronomy. “Un giorno”, forse proprio per questo non è funzionata. Eravamo sempre proiettati nel futuro, facevamo mille progetti e poi rimanevamo nella nostra città, legati alle solite persone che odiavamo e ai nostri lavoretti di merda. Eravamo pigri, e non volevamo affrontare la realtà, impauriti dai mille ostacoli che immaginavamo si sarebbero frapposti fra noi e i nostri sogni. E poi, parlare di sogni, sembrava troppo infantile per poterci credere davvero.
Basta così, è passato, e rimarrà tale. Meglio pensare al presente, a cosa sto vivendo ora, a cosa voglio vivere ora. E’ tutto troppo confuso, ed è il caso di fare un po’ di chiarezza. Devo svegliarmi e cercare di gestire un po’ il mio futuro. Inizierò smettendo di perdermi nel vuoto mentre mi guardo allo specchio.
Lo specchio appoggiato alla parete in questo negozio poco illuminato riflette me e l’uomo che mi sta accompagnando in questa strana giornata. Mi chiedo se sia reale, ogni minuto che passa mi rendo sempre più conto di quanto tutto questo sia assurdo. Ma è qui con me, e ciò mi fa sentire al sicuro. Chiunque lui sia, da qualunque posto venga, sono stata fortunata ad averlo incontrato. Mi dirigo alla cassa, compro la sciarpa ed esco in silenzio. Il vento freddo di questo inverno soffia sulle mie guance. Decido di coprirmi e mettere il mio nuovo, soffice acquisto.


Non capisco come possano certe persone considerare stupida la cura del proprio abbigliamento. Mentre mi copro non riesco a fare a meno di sorridere felice sentendo gli strati caldi e colorati di stoffe coprirmi. Sono vestita come il mondo che mi circonda, come le piante e le strade e le foglie secche che le ricoprono. Felponi e scarponi neri, maglioni marroni, sciarpe senape, cardigan bordeaux. Qualcuno considera questi colori dei colori tristi. Per me sono solo colori, felici quanto ogni altro colore. Sotto tutti questi strati mi sento a casa, potrei affrontare ogni vento e stare bene. E’ come se mi portassi dietro un luogo intimo, tutto mio, fatto di ricordi e sensazioni. E ogni piega significa qualcosa. Dietro una cucitura può esserci un’intera tradizione, e dietro una camicia stirata male può esserci una madre arrabbiata col marito mentre una televisione ignorata urla troppo forte.
Ci allontaniamo dal negozio, e camminiamo lentamente. Il cielo è grigio.

Camminiamo per  una decina di minuti, passeggiando tra i canali. Siamo ormai lontani dal centro, alla strada iniziano ad affiancarsi dei campi verdi, erba tenera che riposa in questa giornata umida, forse qualche campo coltivato a rotazione lasciato in pace per un po’. I canali scorrono placidi, passando sotto lo stradone, che in alcuni punti diventa un romantico ponte, con delle vecchie ringhiere in ferro battuto.
“Ci stanno seguendo”

“Cosa sai della Yakuza?”
E’ davvero fantastico il modo in cui, nella mia vita, passo da momenti di completa tranquillità a momenti di puro dramma. Sorrido beata quando il mondo attorno a me impazzisce, mia madre inizia a urlare, le amiche in lacrime mi chiamano, gli amici mi rivelano cose terribili che avevo più volte cercato di ignorare. Il telefono squilla e una voce tremante mi fa sapere che anche lei, lei che ora sembrava così forte, è scomparsa.
“Ci stanno seguendo da qualche ora. Ti seguono, ti seguono da tempo. E’ per via di tuo padre. Lo avevi capito forse”. No, io non ho capito nulla. Non avevo capito nulla prima, non ho capito nulla ora. Non ho mai capito molto di mio padre, ma ora sta diventando tutto davvero assurdo. Cosa sta succedendo? E’ tutto falso, sta scherzando. Non fa ridere. Cosa sta dicendo? Non sta scherzando.
“Sono qui per proteggerti”
Sta scherzando.
Una macchina sgomma, poi frena, le portiere si aprono. Non posso non aver notato una macchina del genere fino ad ora, non può averci seguito. Non ha senso, eravamo in un negozio, ho preso una sciarpa, no, cos’è tutto questo?
Due uomini scendono dalla macchina. Asiatici, blazer, nocche tatuate, pistole?
Sono allibita. Ok, forse sono terrorizzata. Non so cosa stia succedendo ma ho paura e di certo no sta succedendo nulla di buono. Nessuno sta scherzando.
L’uomo occidentale mi si mette davanti, mi nasconde, tira fuori una pistola. I due uomini urlano qualcosa, puntano le pistole su di noi. Dobbiamo scappare, sparagli, dobbiamo scappare. L’uomo occidentale mi spinge dietro di lui, mi dice di nascondermi dietro un piccolo muretto a pochi metri da noi. Io corro. Non sto più nemmeno pensando, corro, non mi giro e non capisco cosa succede. Inizia a nevicare. No, forse è già iniziato da un po’. Come faccio ad accorgermi della neve in una situazione del genere? Lui urla, loro urlano, sento uno sparo, altri due spari, dietro il muretto mi volto e guardo la scena. Un giapponese a terra. L’altro uomo sceso dalla macchina e l’occidentale si puntano ancora la pistola contro. L’occidentale mi urla qualcosa, qualcosa che non capisco. Si accascia. Anche il giapponese si accascia. Si sono uccisi. Io sono dietro il muretto. Nevica, e loro si sono uccisi. Tre morti su una strada. Un’auto. Nient’altro. Silenzio.

Forse non me ne ero accorta. O forse non volevo semplicemente dirlo. Forse. Basta coi forse. Ci sono troppi forse nelle nostre vite, come se dovessimo sempre cercare di dare una spiegazione a tutto, anche quando non sappiamo nulla. Ma non serve, non è scritto da nessuna parte, non serve sempre una spiegazione. certe cose succedono e basta. Altre le senti e sai che ci sono. Altre volte non le senti, ma ci sono. Dovremmo imparare a vivere senza cercare una spiegazione a tutto, saremmo molto più sereni. E’ tutto bianco, quando non hai dubbi nè certezze, quando non sai nemmeno di esserci, ma stai bene, e questo basta.

Mi sposto, mi avvicino all’occidentale. Pochi passi, fa male. Mi hanno sparato, e non me ne ero accorta. Assurdo. Bene. Ancora qualche passo verso di lui.
Mi hanno sparato. Lo sto ripetendo perchè ripetere le cose mi aiuta a capirle. Piano piano, con tranquillità, si possono capire le cose, almeno un pochino.
Rido un po’ tra me e me, è come dicevo prima, nella mia vita accadono le cose più assurde, e io ancora non me ne faccio una ragione, soprattutto ultimamente, in questo periodo è tutto molto confuso. Io sono molto confusa. E’ ora di cambiare qualcosa. Partirò, ecco. Devo andare da qualche parte.
Potrei tornare in Giappone. Da quanto non torno in Giappone? Saranno secoli. Non che ne abbia davvero voglia, ho sempre odiato quel posto. Ma ho anche tanti bei ricordi. Forse mi farebbe bene. Tornare a casa. Rivedere casa.

Sono andata in un ristorante, avevo così tanta fame, e avevo bisogno di soccorso, almeno credo. Sono sempre molto stanca ultimamente, oggi in particolare. Credo di essere ancora un po’ rintronata. Forse è per tutto quello che è successo, forse per lo sparo. Mi sono seduta qui, è un MacDonalds, ci sono queste sedie molto carine, tutte scomode. Sono su uno sgabello, ed è pieno di gente. Sono seduta qui da ore, ma non ho ancora mangiato nulla. Non ho ordinato nulla. Forse, tra un po’. Dove sono? Sono in Giappone? Sono in aeroporto, nel MacDonalds dell’aeroporto. Mi sono ripresa, non ho nulla, sono solo un po’ stanca, ma ce la posso fare, ora partirò, è ciò di cui ho bisogno in fondo. Devo solo organizzarmi, riordinare le mie priorità, fare qualcosa per me. Sì, devo dedicarmi un po’ di tempo, ritagliarmi dei piccoli spazi, rivedere casa. Riprendermi i miei tempi. Torno in Giappone.

Ogni giorno, andando verso casa dopo scuola, attraversavo questi grandi viali alberati. Alberi brutti, ma molto imponenti. I classici alberi da foresta temperata, anonimi, europei.
Li attraverso ostinata nei miei felponi neri, la mia sciarpa senape al collo, parto, corro per questo viale innevato. Sto benissimo. Forse volevo dire “è bellissimo”. Non so.
La musica cresce, e penso di conoscere questa canzone, anche se l’ho sentita solo una volta. Me l’ha fatta sentire una cara amica. O forse ero io ad averla trovata, non ricordo.
Vedere questi viali alberati a volo d’uccello, mentre nevica e i lampioni gialli sono accesi nonostante sia ancora giorno. Nessuna macchina attraversa il viale oggi, è tutto per me.
Neve ovunque, anche sul campo di grano. Un campo di grano, e in mezzo un vialetto che lo percorre, forse sarebbe meglio dire una stradina sterrata, che si sviluppa in una spirale e porta chissà dove. Non vedo la fine del percorso, e per ora non mi interessa. Con calma ci arriverò.
C’è bisogno di respirare aria fresca, anche in questo inverno.

Il freddo nelle ossa scompare, il torpore del sonno è più forte.

quando, qualcosa che inizia, finisce?

sweet dreams

la vita non è altro che vecchi videogiochi di star wars, spezzoni dei robinson, le sere degli ultimi anni 90, e immotivata tristezza

Le Vie dei Canti // Misunderstanding Chatwin

Rumore e soffi, sangue e carcasse portarono l’uomo fuori dalle caverne.
Come in un romanzo di Jules Verne, inizia l’odissea, il viaggio senza fine sotto i cieli più finti mai visti, dove i dinosauri attaccano ogni cacciatore.

Una volta passata la lunghissima notte di Kubrick, i nuovi cacciatori corrono per le praterie sotto i cieli di alabastro del mattino. Pelli olivastre lanciano grida correndo per i campi di grano, il moto ondoso dei campi, i piani per la caccia.
Poi i canti, quelli azzurri che si innalzano al cielo, quelli rossi che ruotano attorno ai falò. Si accendono le carezze, si aprono nuovi occhi.  Il primo sorriso di Parvati, Parvati mai esistita. Parvati mai esistita non aveva mai visto Lilith. Parvati mai esistita aveva visto i primi innamorati.
Gli innamorati si rincorrono.
Tutti gli altri si uccidono a vicenda. Gli innamorati si uccidono. I figli scappano, i figli si odiano. Caino uccide Abele, eppure a morire sarà Enoch. Giulietta uccise tutti.
La musica era finta come finta è ogni immagine, l’illusione è fumo, è oppio che riempie i timpani.
I tamburi di Shiva suonano ormai ogni giorno, da quando i cacciatori hanno finito tutti gli animali.

Qualcuno canta ancora, forse, attraversando il fiume, o mentre va verso il mare.
Sopra il cielo e sotto il caos, le due madri furiose e confuse.

Nel metallo la luce si riflette e taglia gli occhi degli andalusi. Cani andalusi, cani, luridi cani, bastardi senza madre, allevati da Durga. I bastardi hanno macchiato mani e polsi di sangue, ma hanno deciso di vedere, per questo sono stati puniti. La paura li ha spinti a vedere, per cercare Euridice, e ora possono solo consolarsi con lo sguardo vuoto, posato su uno specchio d’acqua ferma. I loro corpi sono tumescenti, come solo i più grandi cani di Lucian Freud, i loro vestiti splendidi, come solo i più grossi cani di Lucian Freud.

Ma si ostinano a voler guardare, a costo di macchiare di sangue lo stagno. Sono ciechi, ma forse potranno sentire il calore del fuoco che verrà loro riportato da Prometeo.

Ci si chiede ancora se i cani diretti verso il mare, cantando alle madri, siano ciechi o meno. Sapranno fermarsi sulla spiaggia?

Le stelle, intanto, continueranno a suonare, come i campanelli degli abiti cerimoniali, chiusi a prender polvere nei musei.

Le Vie dei Canti // Misunderstanding Myself

Siamo Abele o Caino?
Il nostro modo di vivere, di sentire, di fare esperienza, può seguire due diversi percorsi, due percorsi forse analizzati dalla Bibbia. Potremmo quasi guardare a questa come ad un grande libro epico, e allo stesso tempo un manuale di viaggio, meglio un diario di viaggio, il diario di Abele, il diario dei discendenti di Abele. La storia di quelli che hanno scelto di viaggiare, dei grandi esodi, degli apostoli che hanno girato il mondo. Un romanzo scritto da un sostenitore del viaggio, da uno Yahweh da Lonely Planet.

Noi figli di Abele abbiamo sempre camminato. Solo pochi anni fa abbiamo deciso di stabilirci, di diventare sedentari, di  usare le automobili e girare film, partecipare a vernissages e contare le banconote, di prendere le medicine, di tagliarci i capelli e cercarci un lavoro.
Si è deciso che così doveva andare, e si è fatto andare tutto così.

Eppure non siamo cambiati. Sentiamo ancora la paura, la notte, quando il misterioso predatore è in agguato. Sentiamo ancora l’odore delle tigri pronte a sbranarci, anche se col tempo abbiamo imparato che le tigri non possono più sbranarci. Ma ci siamo abilmente creati i draghi, i fantasmi, e quando questi non bastavano ci siamo resi noi draghi e fantasmi, siamo diventati i mostri più paurosi, per poter vedere ancora qualcosa muoversi dentro quella caverna. In sud africa abbiamo deciso di capovolgere le regole del gioco e di rendere questi mostri lontani ricordi, e forse ne paghiamo ancora le conseguenze. Una vita piena di errori, pare essere la nostra.
Errori o semplici scelte, come la scelta di capovolgere tutto e diventare noi l’uomo errante primitivo, di prendere il bastone e la pietra, di usare la lancia, di mordere i nemici. E tra errori e scelte ci ritroviamo ancora a vagare per l’outback, a pensare a quanto poco valgano le piramidi.
E quando capiamo che alcuni uomini riescono a cantare il loro percorso verso il mare, allora capiamo anche di non essere giunti dove desideravamo. Meglio ancora, capiamo di non essere giunti dove dovevamo. Proprio perchè non dovevamo giungere da nessuna parte. Il caos, quello della caverna buia, quello del cielo scuro e delle stelle piccole e definite, regnava anche fuori dalla caverna. Regnava nell’aria, nel mare e nelle galassie. E gli aborigeni creavano ordini, costruendo il tempo del sogno, e i cristiani facevano lo stesso con la Bibbia, e così faceva Freud, e così fa ogni persona, ogni giorno, quando crede nei palazzi che gli si stagliano di fronte o quando crede nei fantasmi della vecchia casa di campagna. Il caos e l’ignoto formano ancora i più affascinanti disegni, segni bianchi su sfondi rossicci, righe rosse, fumi oppiacei e polveri colorate.

Ma i canti attirano ancora la nostra attenzione. Forse perchè ci illudono di un tempo passato in cui l’uomo sapeva.
Sapeva cosa si celava dietro i fumi scuri e sotto i fiumi , sapeva della sua discendenza, se apparteneva alla stirpe di Abele o Caino, sapeva cosa sarebbe successo alla sua progenie.
Ma probabilmente, anche gli uomini che cantavano, e gli uomini che cantano il loro percorso, ormai diventato la loro fuga , non lo hanno mai saputo. Non hanno mai saputo perchè anni dopo ci si sarebbe ritrovati sdraiati nelle vasche da bagno, piangendo per il vuoto e per il sapore amaro del rosso denso in bocca.

Il mito di Prometeo era solo un mito, forse. Il fuoco ci è stato dato dal caos, e la sua natura è il caos. Gli aborigeni danzavano attorno a ciò che cercavano di spiegare, danzavano la propria solitudine, sognando un vero fuoco.

Prometeo non è mai arrivato, Cristo non ha mai parlato, Buddha non si è mai illuminato. Ma forse ci hanno ispirato. Ci hanno detto cosa dobbiamo fare. O forse, più di tutto, ci hanno fatto comprendere cosa vogliamo fare.

Noi siamo Prometeo.

chi ha paura delle felci?

due corna, felci corrono simmetriche dalla mia fronte. le braccia alzate, gli indici puntano avanti.
il vento muove gli acchiappasogni, i cervi scappano da anni, ormai. la via e il fango, ti indico cosa fare, ti vieto di guardarmi. vesti di pelli e di piume, vesti di sedimenti culturali, moda di culture mai esistite, basata sullo stesso principio del mitraismo, di damanhur, della storia del cristianesimo, artefatti bellici.
crearsi.

balam acab – regret making mistakes

come l’homme vert nel medioevo, tra i monasteri e i grandi prati. col passare degli anni si noteranno solo i ristoranti cinesi.

per stare bene

posso solo ricordare quando sentivo la musica e vedevo i colori, e i miei occhi si illuminavano e sentivo tutto dentro e tutto scoppiava ed era forte, e lì a torino poi è tutto così magico e la musica ha un altro profumo e la gente è diversa, e tutti sono giovani e tutti sono vecchi, e il sole riscalda ma in un altro modo, eppure ero solo, anche quella volta.

perchè poi stavo bene sì, ma in fondo mi immaginavo tutto. ma non voglio pensarci, voglio solo sapere che quello è un ricordo, e dentro c’è quel flauto, e l’autogrill, e le magliette colorate coi colori dell’arcobaleno che si scontra col sole e migliaia di cristalli cadono e il mondo diventa un kaleidoscopio e sorridi, e se ascolto santa maria de feira penso a tutto ciò e sorrido

l’autostrada porta sempre i miei sogni

Si può provare nostalgia per qualcosa che non abbiamo mai vissuto?

cercavo in google questa frase, senza motivo. volevo solo vedere cosa usciva fuori, vedere se altre persone si commuovevano studiando la storia della tv in italia negli anni 70, o ricordandosi la scena lgbt di new york degli anni 80, e per caso ho scoperto che baricco, autore che non ho mai letto, ha scritto la stessa frase.

poi una capatina sul mio blog, e guardando le chiavi di ricerca con cui qualcuno è arrivato qui trovo questa. scritta senza punteggiatura, da non so chi. mi chiedo perchè una persona si sia messa a cercare una frase simile in google. non è una citazione, non è una canzone, tantomeno il post di un altro blogger. davvero curiosa come cosa. o forse lo è, ma io non lo so. eppure mi ha affascinato. ho provato nostalgia anche per queste parole.
Sperando quindi di non recar danno a nessuno, e buttandoci dentro giusto qualche virgola senza modificare troppo il testo, la pubblico.

ho tante altre cose da dirti e poco tempo da passare assieme.
sono diversi giorni che non ti cerco ma è inutile continuo a pensarti.
e’ più di un mese che non scrivo. sono stanco. forse non scriverò ancora per un po’. meglio così.
ecco è ora di finirla non voglio voltarmi indietro e capire che ci sei, in ogni istante vorrei che tutto questo finisse e lo ripeto e lo ripeto e lo ripeto.
le ho scritte tutte per te, una in più, una in meno ma non sono quello che hai pensato, non sono quello che hai voluto, non sono stato mai lo stesso.
non sono qui ora.

mana

ascoltavo un live di fever ray, suonava here before. e mi è venuto in mente di quando ero dall’altra parte del mondo, e nemmeno sapevo di esserlo.

wilder than moonlight,
smiling like sunshine

surrounded by forests and strangers
light unfolding through leaves
water and mud, natural playgrounds, myths and families

such a strong woman, such a hard life
moon

qui c’è di tutto. dai sogni più strani che abbia mai fatto alle situazioni più paurose che abbia vissuto.
l’essere circondato dallo stress e dalla paura, da situazioni assurde che hanno messo a dura prova le diverse generazioni di una famiglia.
ricordo solo pochi fotogrammi, sensazioni, luoghi, tutto sconnesso e lontano, e non posso più individuare the boundaries tra sogno e realtà.

ricordo l’odore di sandalo, i cartoni in inglese, la mia passione per vishnu, i templi, la foresta dietro casa che scendeva per la collina fino a chissà dove, l’asilo, la luce che inondava una grande sala piena di poster di tartarughe e sea landscapes. ricordo i batik e il grande negozio dove li vendevano, la strada per andare li, i centri commerciali immensi e pieni di giocattoli. lo slime con cui giocavo mentre mia madre parlava con una persona che più di dieci anni dopo avrei conosciuto e ammirato, un pullmino su cui abbiamo attraversato seasides e comuni, case dove leggevo libri tristi per bambini immerso in un ricordo viola. zanzariere e sconosciuti, mercatini dove immaginette di kali mi terrorizzavano, fiori di loto aperti in continuazione, ninfee e giardini botanici. litigi e piccoli traumi, il mio non essere me, il non conoscere nessuno. le nottate svegli, intere famiglie in una sola casa, Indra.
un nome troppo forte il tuo, forse. hai scatenato la tempesta, e poco prima ero con te. mame tame matakkaranne oea, loved you. 

mi torna in mente il canale di scolo dove giocavo ogni volta che pioveva, e l’argilla con cui costruivo piccoli vasi venuti male. il giardino con i cobra e le canne di bambù, i miei pennarelli e una coetanea, o forse una domestica. la vergogna e i vicini.

gli spettacoli e i carboni, il pera-hera, il fuoco e una casa bianchissima. storie di bambini che uccidevano i genitori per dare prova di coraggio, la sera e i templi su montagnette in città. il fiore che ispirò i dagoba e il candore dei fiori del matrimonio dei miei. il loro profumo, Chandra.

Il monsone all’arrivo dell’aereo, la casa e il fango, le pubblicità con i diavoli e i materassi. i cuscini. gli aerei e la notte. quella notte che era ovunque, in ogni cosa, ogni ricordo, ogni disegno.

i blocchi di zucchero trasparente, la sala, la salma. le storie di fantasmi e gli esorcismi, gli sguardi e le uova.

le lumache e i muri, i ricchi e i loro pavoni, le caramelle e mia nonna, e un pullman su cui ogni volta si rischiava la vita. una casa nuova e isolata, gigantesca, dove assistevamo al tramonto sul balcone mentre in casa i vasi di mia zia prendevano polvere.

guardavo mille camere attraverso uno smeraldo 

sento il suono della pioggia e ricordo la luce che filtrava tra le foglie.
non ricordo mio padre che era lontano, ma ricordo mia madre e la sua sofferenza, che al tempo non potevo capire.

ricordo la sua camicia a righe  i suoi capelli lunghi, i capelli che adoravo e con cui giocherellavo sempre

quei capelli non ci sono più. io non ci sono più. e in parte anche tu, Luna.
il tuo coraggio e la tua forza però ci sono sempre, anche quando non li comprendo. lo sento.
troppo diversi per comprendere le nostre menti, troppo vicini per non voler sempre tentare.
forse eri tu la luna che ogni sera guardavo, la luna che mi seguiva ovunque 

e che mi segue ancora

mentre apro la serratura

continuo, nolente, a celebrare l’inverno

non mi sono mai opposto così tanto alla natura, non ho mai sentito così nemica la normalità.

 

eppure le note scorrono nelle mie orecchie, e mi promettono cose importanti. forse è solo l’arte dell’abbellire il nulla, ma spero sempre in un significato.